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Con la morte, l'uomo perde il diritto al rispetto della vita privata

prof.ssa Cristina Campiglio

Diritti umani e Diritto internazionale - 2007 - pp. 394-397

Corte europea dei diritti dell'uomo, terza sezione, caso JÄGGI c. SVIZZERA (ric. n. 58757/00), sentenza 13 luglio 2006

In una recente sentenza la Corte europea dei diritti dell'uomo ha affrontato un caso di richiesta di prelievo di campioni di DNA dalla salma di un uomo nell'ambito di un'azione di accertamento di paternità. Questa la vicenda. Il ricorrente, nato nel 1939, viene registrato dalla madre come figlio naturale di A.H. Collocato presso una famiglia svizzera, incontra, ormai adolescente, la madre che gli rivela l'identità del padre. Per alcuni anni padre e figlio rimangono in contatto. Poco dopo la morte del padre (il quale si è sempre rifiutato di sottoporsi ad accertamenti medici al fine di determinare la sua paternità), il ricorrente richiede un'analisi del sangue del defunto: l'analisi - stante le conoscenze scientifiche dell'epoca - si limita a non escludere la paternità, ma non è in grado di provarla. Nel 1999 il ricorrente chiede la revisione di una decisione del 1948 con cui il Tribunale di prima istanza di Ginevra aveva respinto l'azione di dichiarazione di paternità, e chiede contestualmente l'analisi del DNA sulla salma dell'uomo. La domanda viene rigettata. Anche il Tribunale federale rigetta la domanda, sostenendo che il diritto di conoscere le proprie origini va contemperato con gli interessi dei terzi ed in particolare con il diritto del defunto di proteggere le proprie spoglie, e con il diritto dei parenti al rispetto del defunto e all'intangibilità della salma. Il Tribunale sottolinea inoltre come il diritto di vedere accertata la propria filiazione è generalmente connesso al diritto di essere allevato dai genitori, laddove il ricorrente - ormai sessantenne - ha già maturato la propria personalità e non sembra poter soffrire per l'incertezza circa la propria discendenza. Il ricorrende adisce quindi la Corte europea sostenendo che il rifiuto dell'analisi del DNA del defunto al fine di determinare se si tratti del proprio padre biologico costituisce violazione del diritto al rispetto della vita privata e familiare, protetto dall'art. 8 CEDU. Nel dichiarare ricevibile il ricorso, la Corte ribadisce che il diritto al rispetto della vita privata include il diritto di conoscere la propria discendenza (Gaskin c. Regno Unito, 7 luglio 1989, pr. 49; Odièvre c. Francia, GC, 13 febbraio 2003, par. 29; Mikulic c. Croazia, 7 febbraio 2002, par. 53), anche quando la controversia concerne la mera ammissione di mezzi di prova (Mikulic cit., par. 51). Nel merito, la Corte parte dalla costatazione che l'art. 8 impone agli Stati non solo obblighi negativi - astensione da ingerenze - ma anche obblighi positivi - adozione di misure a garanzia del diritto individuale -. Tali obblighi sussistono però in concreto solo se all'interesse individuale non si contrappone un interesse generale, che ne legittimi la restrizione: resta nel margine di apprezzamento dello Stato la scelta delle misure appropriate attraverso cui garantire all'individuo l'effettivo godimento del diritto (Odièvre cit., par. 40; Mikulic cit., parr. 57-58). L'ampiezza di detto margine di apprezzamento dipende sia dalla tipologia (astratta) del diritto individuale in causa, sia dalla sua natura nel caso concreto. Quanto al diritto qui controverso, ossia il diritto di conoscere la propria discendenza, la Corte afferma che si tratta di un diritto ricompreso nel più generale diritto all'identità, elemento centrale della nozione di vita privata. Si tratta insomma di un diritto particolarmente "forte", destinato a cedere solo se si riesce a dimostrare che ad esso si contrappongono interessi generali cogenti: nella fattispecie tali potrebbero essere il diritto dei parenti all'intangibilità del corpo del defunto, l'interesse generale al rispetto dei defunti e l'interesse pubblico alla protezione della certezza del diritto (ossia alla immodificabilità di una sentenza passata in giudicato fin dal 1948). In sede di bilanciamento tra gli opposti interessi, la Corte rileva da un lato che l'interesse del ricorrente a conoscere le proprie origini non può ritenersi venuto meno per il solo fatto della età avanzata (anzi, il peso dell'incertezza sopportato per tanti anni gli ha probabilmente causato forti sofferenze morali e psichiche: v. tra altre le sentenze Gaskin cit., par. 49, e Odièvre cit., par. 29), e dall'altro lato che il prelievo di campioni di DNA dalle spoglie del defunto costituisce misura poco invasiva, e che la famiglia non ha addotto in contrario motivi particolari di ordine religioso o filosofico: nè va dimenticato che la salma è comunque destinata all'esumazione, ed anzi sarebbe già stata esumata se proprio il ricorrente non avesse rinnovato nel 1997 la concessione della tomba. Del resto la Corte ha recentemente dichiarato che l'art. 8 non garantisce il diritto del defunto di riposare in pace, e che non costituisce pertanto violazione del diritto al rispetto della vita privata del defunto la richiesta di un prelievo postumo di DNA (decisione del 15 maggio 2006 circa la ricevibilità del ric. n. 1338/03, caso Successione di Kresten Filtenborg Mortensen c. Danimarca). Quanto infine alla protezione della certezza giuridica, la Corte si limita a rimarcare che l'accertamento della paternità biologica non sarebbe comunque destinato ad avere effetti di stato civile. I giudici arrivano così a concludere (a maggioranza di cinque voti su sette) che le autorità svizzere, non avendo garantito l'interesse del ricorrente, hanno violato l'art. 8 CEDU: inoltre, avendo giustificato la propria condotta alla luce delle condizioni di - buona - salute e di - avanzata - età del ricorrente, le autorità elvetiche hanno altresì violato il principio di uguaglianza sancito dall'art. 14. Nessun risarcimento del danno morale viene riconosciuto al ricorrente, dal momento che la dichiarazione di violazione dell'art. 8 rappresenta di per sè stessa soddisfazione equa. L'aspetto più interessante del caso in esame è costituito dal fatto che il presunto padre si è sempre rifiutato di sottoporsi ad analisi volte ad accertare la paternità, analisi che sono state di fatto posticipate alla sua morte. Un primo test genetico, risalente all'epoca della morte, non è stato in grado - stante le conoscenze scientifiche dell'epoca - di accertare la paternità, limitandosi a "non escluderla". Un secondo test, risolutivo, è oggetto della richiesta qui in esame. La Corte, come si è appena visto, richiama la decisione del 15 maggio 2006 con cui ha dichiarato irricevibile il ricorso presentato (in qualità di erede) dal figlio legittimo contro la decisione delle autorità danesi di esumare la salma del padre, Kresten Filtenborg Mortensen: detta esumazione era stata richiesta da due soggetti che, intendendo concorrere all'eredità, chiedevano di prelevare dal defunto i campioni di DNA necessari per accertare la propria qualità di figli biologici. La richiesta di esumazione del corpo del defunto per il prelievo di campioni di DNA si inseriva pertanto in una causa successoria: i pretesi figli avevano infatti avanzato richiesta di dichiarazione di paternità solo dopo la morte del de cuius, a meri fini ereditari. La Corte ha dichiarato irricevibile il ricorso poichè non può parlarsi di violazione del diritto del presunto padre (o meglio della di lui salma) al rispetto della vita privata, in quanto la pretesa violazione avrebbe avuto luogo soltanto dopo la sua morte e lederebbe semmai il di lui patrimonio, la successione. E sarebbe d'altro canto eccessivo estendere la pur ampia nozione di vita privata fino ad affermare che costituisce interferenza nella vita privata "della successione" il test del DNA sulla salma del defunto. Il caso Filtenborg Mortensen differisce dal caso Jäggi in quanto, come detto, il test del DNA era stato richiesto, a meri fini ereditari, solo dopo la morte del presunto padre: costui non era stato in grado, di conseguenza, di esprimere la propria volontà al riguardo. L'interessato, in altre parole, non si era in vita dichiarato contrario a sottoporsi a test genetici, come invece ha fatto il presunto padre di Jäggi. A questo riguardo credo occorra richiamare il già citato caso Mikulic, in cui la Corte, se da un lato ha ricondotto all'art. 8 l'interesse vitale di ogni individuo a ricevere tutte le informazioni necessarie per ricostruire la propria identità personale, dall'altro ha tenuto a precisare che la protezione dei terzi preclude la sottoposizione coatta ad analisi mediche, incluso il test del DNA per l'accertamento di paternità (par. 64). La sentenza nel caso Jäggi lascia invece intendere che la volontà espressa dal presunto padre biologico, non coercibile in vita, può essere contravvenuta dopo la morte (a nulla rilevando l'opposizione della famiglia del defunto), e che insomma il diritto al rispetto della vita privata cessa al termine della vita medesima. Si tratta di una conclusione a prima vista poco coerente con alcune norme convenzionali adottate nell'ambito del Consiglio d'Europa. Mi riferisco all'art. 9 della Convenzione sui diritti umani e la biomedicina del 1997, secondo cui i pareri precedentemente espressi dall'interessato - al momento non più in grado di esprimere la propria volontà - in merito ad un intervento medico "shall be taken into account", e all'art. 17 del Protocollo del 2002 addizionale alla predetta Convenzione, concernente i trapianti di organi e tessuti umani, secondo cui nessun prelievo di tessuti dal corpo di un defunto può essere effettuato salvo che costui vi abbia acconsentito: il prelievo è escluso se il defunto vi si è opposto. Ci si può infine chiedere se non osti al prelievo di tessuti dalla salma del defunto (anche) un altro interesse, e precisamente l'interesse generale - dei parenti e della società - alla sacralità della tomba e al rispetto dei defunti. E' quest'ultimo un interesse evocato dalla stessa Corte, che tuttavia non vi si è soffermata. Ma che si tratti di un interesse rilevante è dimostato dal fatto che esso è stato decisivo in un'altra recente sentenza, che conviene qui brevemente riferire. Si tratta della sentenza del 17 gennaio 2006 relativa al caso Elli Poluhas Dödsbo c. Svezia (ric. n. 61564/00): la ricorrente lamentava violazione dell'art. 8 a seguito del rifiuto da parte delle autorità svedesi di autorizzazione a trasferire nella tomba di famiglia l'urna contenente le ceneri del marito. La Corte richiama una risalente decisione della Commissione (decisione di irricevibilità 10 marzo 1981, ric. n. 8741/79, DR 24, p. 137), in cui si afferma che il desiderio del ricorrente di vedere disperse le proprie ceneri rientra nell'ampia nozione di vita privata: ma che la regolamentazione delle tumulazioni non può essere considerata di per sè ingerenza nell'esercizio di tale diritto. La Corte, operando il consueto bilanciamento tra l'interesse individuale - interesse della vedova al trasferimento delle ceneri del marito - e l'interesse generale - interesse al rispetto della sacralità della tomba -, giunge alla conclusione che il primo deve cedere al secondo (nulla impedisce infatti alla ricorrente di riposare accanto al marito nell'attuale tomba, tomba nella quale il defunto sembra essere stato posto conformemente alla propria volontà). Concludendo. Il caso Jäggi pone il problema della sorte dei diritti protetti dalla CEDU una volta che l'interessato non sia più in vita: si tratta di diritti che gli sopravvivono o si estinguono alla morte? E se sopravvivono, chi ne può disporre, facendoli valere o rinunciandovi: i parenti più prossimi o lo Stato?

Cristina Campiglio



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