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Diritto alla reputazione e libertà di espressione della Convenzione europea dei diritti umani

dott.ssa Federica Falconi

Diritti umani e Diritto internazionale - 2008 - pp. 386-392

Corte europea dei diritti dell'uomo, caso PFEIFER c. AUSTRIA, sentenza 15 novembre 2007

Con la sentenza del 15 novembre 2007, la Corte europea dei diritti umani si è nuovamente pronunciata sul tema degli obblighi positivi posti a carico degli Stati in relazione al diritto al rispetto della vita privata sancito dall'articolo 8della Convenzione europea dei diritti umani (CEDU). In particolare, la Corte ha avuto modo di affermare, in termini chiari ed univoci, che nello spettro di tutela garantita dalla citata norma deve considerarsi ricompreso il diritto alla reputazione: il contenuto degli obblighi positivi derivanti dall'articolo 8 viene così ulteriormente precisato nel senso che esso può comportare l'adozione da parte dello Stato delle misure necessarie a salvaguardare la reputazione degli individui sottoposti alla sua giurisdizione, anche nei rapporti interindividuali. Ciò, sempre che all'interesse individuale non si contrapponga un interesse della società considerata nel suo insieme che ne legittimi la restrizione: la Corte affronta quindi il problema del bilanciamento tra il diritto al rispetto della reputazione di ciascun individuo e la libertà di espressione, posto che, per espressa previsione dell'art. 10, 2° comma, CEDU, il rispetto della reputazione altrui costituisce un limite all'esercizio di tale libertà. Il ricorso che ha dato impulso alla procedura viene presentato dal sig. Pfeifer, giornalista austriaco di origine ebrea, il quale lamenta la mancata adozione da parte delle autorità statali dei provvedimenti idonei a salvaguardare la propria reputazione, a fronte della pubblicazione, nel settimanale di estrema destra Zur Zeit, di una lettera firmata dal direttore, nella quale egli veniva additato come membro di una hunting society che avrebbe preso di mira un professore universitario, il Professor P., in quanto esponente della corrente politica avversaria, sottoponendolo a pressioni tali da indurlo infine al suicidio. Affermazioni siffatte devono essere iscritte nel contesto di un ampio ed aspro dibattito politico, condotto tra avversari di contrapposti schieramenti e iniziato nel 1995, allorché il Professor P. sostenne in un articolo la tesi secondo la quale sarebbero stati gli ebrei a dichiarare guerra alla Germania nel 1933, minimizzando al contempo i crimini commessi dal regime nazista. Nello stesso anno, il ricorrente pubblicò un commento a tale articolo, accusando il Professor P. di aver impiegato toni e diffuso credenze tipiche del Terzo Reich, facendo rivivere la menzogna di una cospirazione ebraica e confondendo i ruoli di vittime e di carnefici. Successivamente, nell'aprile del 2000, l'ufficio del Procuratore di Vienna iniziava un procedimento contro il Professor P. per violazione della normativa austriaca per la repressione del nazionalsocialismo (Verbotsgesetz) e, soltanto pochi giorni prima della data fissata per l'inizio del processo, il Professor P. si toglieva la vita. Quindi, l'editore del settimanale Zur Zeit, prima in un articolo e in un secondo tempo in una lettera indirizzata agli abbonati allo scopo di raccogliere dei fondi, indicava il ricorrente come membro di una hunting society, accusandolo di aver scatenato, con il suo aspro commento, una vera e propria caccia all'uomo che era culminata tragicamente nella morte del professore. L'accusa di diffamazione sostenuta dal ricorrente contro il direttore del settimanale veniva tuttavia giudicata priva di fondamento dalle corti interne. Pertanto il ricorrente adiva la Corte di Strasburgo. Ritenuta la ricevibilità del ricorso e trovandosi a decidere circa l'applicabilità dell'articolo 8 nel caso di specie, la Corte muove dal presupposto indiscusso secondo il quale quello di 'vita privata' è un concetto assai ampio, non definibile in modo esaustivo, che si estende a tutti gli aspetti relativi all'identità personale - come il nome e l'immagine - per includere l'integrità fisica e psichica dell'individuo. In particolare, il diritto al rispetto della vita privata comprende il diritto per l'individuo di sviluppare la propria personalità stringendo relazioni con altri individui al riparo da interferenze illegittime: la tutela predisposta dall'articolo 8, dunque, non è limitata alla sfera intima dell'individuo, ma giunge a coprire una "zona di interazione degli individui tra loro" (per una recente affermazione di tale principio, si veda Von Hannover c. Germania, ricorso n. 59320/00, sentenza del 24 giugno 2004, par. 50). Su questa base, la Corte afferma a chiare lettere che la reputazione forma parte integrante dell'identità personale e dell'integrità psichica di un individuo, ed in quanto tale ricade nell'orbita di tutela di cui all'articolo 8, con la precisazione che tale tutela non viene meno per il solo fatto che gli atti lesivi della reputazione si inseriscano in un dibattito di pubblico interesse (nello stesso senso si vedano le sentenze Chauvy and Others c. Francia, ricorso n. 64915/01, del 29 giugno 2004, par. 70, e White c. Svezia, ricorso n. 42435/02, del 19 settembre 2006, par. 19 e par. 30; nonché, implicitamente, la decisione della Commissione del 15 maggio 1992, Fayed and the House of Fraser Holdings plc c. Regno Unito). Con ciò, l'articolo 8 CEDU rivela ancora una volta le proprie potenzialità espansive, valorizzate nel corso degli anni dall'inter-pretazione estensiva e dinamica della Corte (per una ricostruzione di tale evoluzione nelle sue linee essenziali cfr.: V. Z. Zencovich, "Art. 8. Rispetto della vita privata e familiare", in S. Bartole, B. Conforti, G. Raimondi (a cura di), Commentario alla Convenzione europea per la protezione dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, Milano, 2001, p. 307 ss.; F. Sudre (dir.), Le droit au respect de la vie privée au sens de la Convention europeénne des droits de l'homme: actes du colloque des 26 et 27 novembre 2004 organisé par l'Institut de droit europeénne des droits de l'homme, Faculté de droit, Université Montpellier I, Bruxelles, 2005). In secondo luogo, la Corte nota come oggetto della doglianza del ricorrente non sia un'indebita ingerenza da parte delle autorità statali, bensì la mancata adozione da parte di queste ultime dei provvedimenti necessari ad assicurare il rispetto della propria reputazione. Richiamandosi ad un orientamento ormai consolidato, la Corte osserva che sebbene lo scopo della disposizione sia essenzialmente quella di garantire l'individuo contro ingerenze arbitrarie da parte dei pubblici poteri, l'articolo 8 non si limita ad imporre alle autorità interne un mero obbligo di astensione: con la ratifica della Convenzione, invero, gli Stati hanno assunto anche obblighi positivi, che possono implicare da parte degli Stati contraenti l'adozione di tutte le misure necessarie, ad assicurare la tutela effettiva di tale diritto, anche nelle relazioni degli individui tra loro. E benché i confini tra le due summenzionate classi di obblighi non si prestino ad essere tracciati in modo netto e definito, in entrambi i casi si tratta di stabilire il giusto equilibrio tra gli interessi concorrenti dell'individuo e della società nel suo insieme; in entrambi i casi, inoltre, gli Stati godono di un certo margine di apprezzamento, ossia di un certo grado di discrezionalità in ragione della loro prossimità alla situazione concreta da regolare, salvo il controllo successivo da parte della Corte di Strasburgo (così White, cit., par. 20 e Von Hannover, cit., par. 57 e giurisprudenza ivi richiamata; per un'accurata ricostruzione dei più recenti sviluppi giurisprudenziali sugli obblighi positivi discendenti a carico degli Stati in virtù dell'articolo 8 si rimanda a A. R. Mowbray, The development of positive obligations under the European Convention on Human Rights by the European Court of Human Rights, Oxford, 2004, p. 127-187). Nel caso in esame, la Corte si trova in particolare a dover valutare se le autorità austriache, nell'esercizio del margine di apprezzamento loro riconosciuto in materia, abbiano operato rispettando il giusto equilibrio tra il diritto del ricorrente al rispetto della propria reputazione e la libertà di espressione garantita dall'articolo 10. Preliminarmente, la Corte ribadisce il ruolo fondamentale svolto dalla stampa in ogni società democratica, condizione essenziale per la sua stessa esistenza e per il suo progredire, nonché per lo sviluppo di ciascun individuo, in quanto mezzo indispensabile per il formarsi di un'opinione pubblica consapevole. Sia pure con le limitazioni di cui all'articolo 10, 2° comma - limitazioni che discendono in primis dal rispetto degli altrui diritti ed in particolare della reputazione altrui - la stampa ha il fondamentale compito di divulgare informazioni ed opinioni su tematiche di pubblico interesse e ciò ammette in certi casi il ricorso ad un certo grado di esagerazione e di provocazione (Corte europea dei diritti umani [GC], Pedersen and Baadsgaard c. Danimarca, ricorso n. 49017/99, sentenza del 17 dicembre 2004, par. 71). La relativa libertà, precisa la Corte, non concerne esclusivamente le opinioni favorevoli, inoffensive o indifferenti - nei confronti delle quali, per vero, non si pone alcuna esigenza di tutela - ma anche le opinioni che urtano e creano turbamento, così come è richiesto dai valori del pluralismo, della tolleranza reciproca e dello spirito di apertura senza i quali una società non può dirsi democratica (si veda al riguardo la celebre sentenza del 7 dicembre 1976, Handyside c. Regno Unito, ricorso n. 5439/72, par. 49, richiamata nella recente sentenza Von Hannover, cit., par. 58). Quindi, rilevato come l'obbligo delle autorità austriache di proteggere la reputazione del ricorrente avrebbe potuto configurarsi, nella misura in cui fossero stati valicati i limiti posti all'esercizio della libertà di stampa ed in particolare all'esercizio del diritto di critica, la Corte osserva che, nel contesto di un dibattito di natura politica o comunque su questioni di pubblico interesse, le limitazioni alla libertà di stampa ammesse in base al disposto di cui all'articolo 10, 2° comma, si riducono sensibilmente (Feldek c. Slovacchia, ricorso n. 29032/95, sentenza del 12 luglio 2001, parr. 72-74; Scharsach and News Verlagsgesellschaft c. Austria, ricorso n. 39394/98, sentenza del 13 novembre 2003, par. 30). Del resto, il ricorrente era egli stesso un personaggio della scena pubblica austriaca, che, specie in considerazione dei toni aspri con i quali aveva commentato l'articolo del Professor P., doveva considerarsi particolarmente esposto a contro- critiche e mostrare, conseguentemente, un maggior livello di tolleranza rispetto ad un comune cittadino. Ciò, peraltro, non significa che l'esercizio del diritto di critica, che pure ammette l'impiego di toni di disapprovazione e censura anche aspri, nonché, come si è visto, il ricorso ad un certo grado di esagerazione e di provocazione, possa prescindere dalla veridicità dei fatti assunti a proprio fondamento e tradursi in una falsa ricostruzione della realtà. In proposito, la Corte rileva che anche un giudizio di valore - che pure, a differenza di un'affermazione di fatto, non può essere considerato né vero, né falso, e che pertanto non è suscettibile di essere provato - deve riposare su una sufficiente base fattuale, per essere considerato esercizio legittimo della libertà di espressione (Jerusalem c. Austria, ricorso n. 26958/95, sentenza del 27 febbraio 2001, par. 43 e Feldek, cit., parr. 75-76). Nello specifico, i giudici di Strasburgo mostrano di non condividere la posizione assunta dai giudici austriaci, secondo cui le affermazioni in causa avrebbero dovuto essere riguardate come un mero giudizio di valore, espresso entro i limiti posti dall'articolo 10, 2° comma. A loro giudizio, tali affermazioni rappresentano piuttosto una statuizione di fatto, che, in quanto tale, avrebbe potuto e dovuto essere provata. In particolare, l'affermazione secondo la quale il ricorrente sarebbe stato membro, insieme ad altri personaggi della scena politica e culturale austriaca, di una "hunting society" che avrebbe preso di mira il Professor P., spingendolo al suicidio, stabilisce un preciso nesso causale tra la condotta del ricorrente e la morte del Professor P., senza fornire alcuna prova al riguardo. Quand'anche poi si ritenesse di considerare tale affermazione come un mero giudizio di valore, continua la Corte, si dovrebbe concludere in ogni caso per l'illegittimità del sacrificio imposto alla reputazione del ricorrente: tale giudizio, infatti, sottintende la responsabilità morale del ricorrente in relazione al suicidio del Professor P., finendo per attribuirgli la responsabilità di un fatto penalmente rilevante, e, per questa parte, appare sprovvisto di un riscontro fattuale sufficiente. Alla luce delle considerazioni che precedono e a maggioranza di cinque voti su sette, viene dunque censurato l'operato delle corti interne che, nell'esercizio del margine di apprezzamento loro attribuito, hanno ritenuto di accordare un maggior peso alla libertà di espressione a discapito della reputazione del ricorrente, con conseguente violazione dell'articolo 8. Al ricorrente viene riconosciuta la somma di 5.000 euro a titolo di risarcimento del danno morale patito. Non si pretende in questa sede di entrare nel merito della questione se le affermazioni in causa avessero effettivamente natura di statuizioni di fatto e non di giudizio di valore - anche se le opinioni dissenzienti espresse dai giudici Loucaides e Schäffer contengono argomenti ragionevoli a sostengo della seconda tesi. Ciò che merita di essere sottolineato è che la Corte di Strasburgo è giunta ad affermare in termini espressi che il diritto alla rispetto della vita privata, tutelato dall'articolo 8 CEDU, include il diritto alla protezione contro attentati alla propria reputazione che non si giustifichino in ragione di un preminente interesse generale. Sulla base di tale approccio ermeneutico, il diritto alla reputazione non viene in rilievo soltanto come motivo legittimo per introdurre una limitazione alla libertà di espressione ai sensi dell'articolo 10, 2° comma, ma riceve considerazione autonoma e tutela specifica nell'articolo 8, in quanto parte integrante dell'identità personale e dell'integrità psichica dell'individuo. Diritto alla reputazione e libertà di espressione si vedono dunque riconosciuto il medesimo status giuridico, con la conseguenza che la tutela dell'una non può condurre alla negazione dell'altro. In particolare, se è vero che la critica può giungere ad offendere la reputazione individuale, senza per questo essere vietata, è altrettanto vero che non ogni lesione della seconda potrà ritenersi ammessa in nome della prima: si impone così alle autorità nazionali un bilanciamento tra i due interessi contrapposti, in sede del quale particolare riguardo dovrà aversi alla veridicità dei fatti assunti come presupposto delle opinioni e delle valutazioni espresse (Sulla tendenza emersa nella giurisprudenza di Strasburgo a privilegiare una 'ultra protezione' della libertà di espressione, a discapito del diritto alla reputazione e per una critica a tale tendenza, cfr. L. G. Loucaides, "Libertà di espressione e diritto alla reputazione", in Rivista internazionale dei diritti dell'uomo 2002, p. 7). Ne discende a carico degli Stati, in un'ottica di effettività della protezione, non soltanto l'obbligo generale di astenersi da ingerenze arbitrarie, ma, come si è già visto, anche, e soprattutto, l'obbligo di adottare tutte le misure necessarie per salvaguardare la reputazione degli individui sottoposti alla loro giurisdizione, anche nelle relazioni degli individui tra loro: quest'ultima precisazione è d'obbligo dal momento che gli atti lesivi dell'altrui reputazione sono per lo più posti in essere da privati, persone fisiche e giuridiche, e segnatamente dai mass media. È questo un risultato che deve essere accolto con grande favore, specie ove si consideri quanto forte sia nel mondo attuale l'influenza esercitata dalla stampa sull'opinione pubblica: spesso accade infatti che le impressioni suscitate da una pubblicazione sulla stampa siano più determinanti della realtà, in quanto tali impressioni sono destinate a prevalere sino a quando la verità non venga eventualmente scoperta (e sempre che la verità non venga alla luce quando ormai l'opinione pubblica si è consolidata: al riguardo si veda l'opinione dissenziente espressa dal giudice Louicaides nel rapporto adottato dalla Commissione il 9 luglio 1998 relativo al caso Bladet Tromsø A/S e Pål Stensås c. Norvegia, ricorso n. 21980/93). In quest'ottica, può essere qui richiamato un costante orientamento della giurisprudenza di legittimità italiana, secondo la quale la critica, ove preceduta dall'esposizione di fatti che sono oggetto della successiva critica, deve considerarsi lecita soltanto a condizione che tale esposizione sia condotta secondo verità, analogamente a quanto prescritto in tema di diritto di cronaca (ex multis, Corte di Cassazione, Sezione V penale, sentenza del 15 dicembre 2004, Deni, in Giurisprudenza Italiana 2005, p. 2367). Dunque, benché in certi casi, l'impiego di toni aspri e severi debba ritenersi ammesso in quanto funzionale ad una migliore e più efficace informazione - specie quando si tratti di attirare l'attenzione dei lettori su fatti particolarmente gravi -, è necessario che il fatto riferito o presupposto, che costituisce lo spunto per svolgere riflessioni e considerazioni critiche, sia conforme al vero: ciò non soltanto perché il riferire un fatto falso pone a carico di coloro che ne sono indicati quali responsabili un'accusa infondata, ma anche perché le notazioni critiche che vengono formulate a partire da tale fatto risulterebbero non corrispondenti all'interesse pubblico, non utili, in ultima analisi, per i destinatari della notizia (cfr. S. Peron, "Diritto di critica: esercizio e limiti", in Responsabilità Civile e Previdenza 2007, p. 224). Emerge così un interesse della società nel suo insieme a che gli attacchi contro la reputazione dei singoli non rimangano privi di sanzione: la repressione di giudizi dal contenuto diffamatorio protegge, oltre alla dignità dell'individuo, il diritto del pubblico ad un'informazione veritiera, con un "effetto di congelamento rispetto a forme di giornalismo irresponsabile", perché se è vero che la stampa ha il compito di divulgare notizie di pubblico interesse, cui corrisponde il diritto dei cittadini di riceverle, è altresì vero che l'adempimento di tale compito comporta, come riconosciuto espressamente dall'art. 10, 2° comma, "doveri e responsabilità" e trova un limite invalicabile nel rispetto della dignità della persona (v., in tal senso, l'opinione concorrente del giudice Loucaides nel recente caso Lindon and Others c. Francia, ricorsi nn. 21279/02 e 36448/02, sentenza del 22 ottobre 2007).

Federica Falconi



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