Illeciti a carattere continuo e giurisdizione ratione temporis della Corte Europea dei diritti umani: il caso Varvana ed altri c. Turchia
dott.ssa Arianna Bretschneider
Diritti umani e Diritto internazionale - 2008 - pp. 377-382
Corte europea dei diritti umani, Varnava e altri c. Turchia, ricorsi n. 16064/90, 16065/90, 16066/90, 16068/90, 16069/90, 16070/90, 16071/90, 16072/90, 16073/90, sentenza del 10 gennaio 2008 (www.echr.coe.int)
La decisione della Corte europea del 1° gennaio 2008 nel caso Varnava e altri c. Turchia trae origine da nove ricorsi presentati alla Commissione il 25 gennaio 1990 da cittadini greco-ciprioti,
familiari di persone scomparse durante l' occupazione militare turca dell'isola di
Cipro nell'estate del 1974. I ricorrenti ritenevano che i loro cari - dei quali non avevano avuto più notizie dal momento
della scomparsa - fossero stati catturati, detenuti e uccisi dai militari turchi durante
le operazioni militari, e chiedevano alla Corte di accertare la violazione da
parte della Turchia degli articoli 2, 3, 4, 5, 6, 8, 10, 12, 13 e 14 della CEDU.
Com'è noto, fin dall'indipendenza dai coloni britannici (1960) l'isola di Cipro
fu sede di aspri conflitti tra le comunità turco-cipriota (in minoranza) e greco-
cipriota (in maggioranza) ivi residenti. Il 15 luglio 1974 la Guardia Nazionale
cipriota, da sempre fortemente influenzata dal governo greco, rovesciò il regime
del Presidente Makarios III con l'intento di annettere Cipro alla Grecia. Ritenuta
in pericolo la comunità turco-cipriota, la Turchia decise di intervenire militarmente
a tutela dei propri cittadini invadendo e occupando la parte settentrionale
dell'isola, eseguendo arresti e uccisioni di massa e costringendo i circa
180.000 greco-ciprioti ivi residenti ad abbandonare le proprie abitazioni. Da allora
non si hanno più notizie di circa 1.619 persone. Le violenze, le uccisioni, la
scomparsa, le ingiuste detenzioni, le presunte torture perpetrate dai militari
turchi, la totale assenza di indagini da parte delle autorità competenti e la difficoltà
di esperire le vie di ricorso interne hanno costituito oggetto di diversi ricorsi,
individuali e statali, alla Commissione e successivamente alla Corte europea
(il leading case in materia è il ricorso n. 25781/94, Cipro c. Turchia, deciso
con sentenza del 10 maggio 2001; v. anche L. G. Loucaides, "The judgement of
the European Court of Human Rights in the case of Cyprus v. Turkey", in Leiden
Journal of International Law 2002, p. 225 ss.) conclusisi con l'accertamento
dell'effettiva e continua violazione da parte della Turchia di diverse disposizioni
della CEDU.
La decisione della Corte nel caso Varnava e altri c. Turchia, che si colloca
nel medesimo contesto, presenta interessanti spunti di riflessione.
In primo luogo, la Corte accerta e riconosce la violazione dell'articolo 3 per
i trattamenti inumani e degradanti inflitti dallo Stato turco ai familiari degli
scomparsi, i quali attendono da oltre 25 anni di conoscere il destino dei loro cari.
Vengono richiamati i principi generali enunciati nel caso Cipro c. Turchia
(cit., par. 155-158): il silenzio, l'inattività e la totale assenza di indagini effettive
da parte delle autorità turche a fronte della preoccupazione e dell'angoscia dei
familiari degli scomparsi, integrano un trattamento inumano ai sensi
dell'articolo 3, superando di gran lunga la soglia minima di gravità richiesta dalla
Corte ai fini della violazione della norma in oggetto (A. Esposito, "Art. 3 Proibizione
della tortura", in S. Bartole, B. Conforti, G. Raimondi, Commentario alla
Convenzione Europea per la Tutela dei Diritti dell'Uomo e delle Libertà Fondamentali,
Padova, 2001, p. 56 ss.).
Nel valutare se un trattamento è inumano la Corte prende in considerazione
diversi fattori: la premeditazione, la durata del trattamento, l'intensità delle
sofferenze mentali e fisiche. È inumano quel trattamento che provoca volontariamente
sofferenze mentali e fisiche di particolare intensità; è degradante un
trattamento che cagiona sentimenti di paura, angoscia, inferiorità, umiliazione e
avvilimento (per una disamina si vedano Soering c. Regno Unito, ricorso n.
14038/88, sentenza del 7 luglio 1989; Irlanda c. Regno Unito, ricorso n.
5310/71, sentenza del 1œ gennaio 1978; Tyrer c. Regno Unito, ricorso n.
5856/72, sentenza del 25 aprile 1978, F. Sudre, "Article 3", in L. E. Pettiti, E.
Decaux, P. H. Imbert, La Convention Europeenne des Droits de l'Homme, Paris,
1999, p. 158). Nel già ricordato caso Cipro c. Turchia, lo status di vittima di
trattamenti inumani e degradanti viene peraltro riconosciuto solo in presenza di
precisi fattori (il grado di parentela, il protrarsi della violazione, il vano tentativo
di ottenere informazioni dalle autorità, l'aver assistito a situazioni di particolare
violenza e gravità) che rendono le sofferenze dei familiari più intense rispetto ai
sentimenti di angoscia e preoccupazione che normalmente affliggono i parenti
di una persona scomparsa. In assenza di informazioni sulla sorte dei propri cari,
i familiari delle persone scomparse a Cipro nell'estate del 1974 hanno vissuto in
uno stato di continua e acuta ansia, che non si è certo affievolita con il trascorrere
del tempo. Le circostanze in cui la scomparsa si è verificata - uccisioni e catture
di massa - hanno poi amplificato le loro sofferenze, che pertanto possono
essere qualificate trattamento degradante. I familiari degli scomparsi sono dunque
vittime 'dirette' dei trattamenti inumani e degradanti (si vedano le decisioni
della Commissione sui ricorsi n. 1420/62, 1477/62, 1478/62, G. Raimondi, "Art.
34 Ricorsi Individuali", in S. Bartole, B. Conforti, G. Raimondi, Commentario,
cit., p. 567). L'interpretazione estensiva dell'articolo 3 operata dalla Corte - che
qualifica trattamenti inumani e degradanti non solo le condotte lesive
dell'integrità fisica, ma anche quelle che producono sofferenze morali - avvicina
e uniforma la CEDU agli altri strumenti internazionali posti a tutela dei diritti
dell'individuo, prima fra tutte la Convenzione delle Nazioni Unite sulla tortura
del 1984, il cui articolo 1 fa espresso riferimento alle sofferenze 'mentali' (v.
Timurtas c. Turchia, ricorso n. 23531/94, sentenza del 13 giugno 2000).
La Corte ha altresì riconosciuto la violazione dell'obbligo di svolgere le indagini
necessarie ad accertare la sorte degli scomparsi che presumibilmente si
trovavano sotto la custodia o il controllo turco, ai sensi dell'articolo 5 della
CEDU. La circostanza che fa sorgere l'obbligo d'indagine è il controllo effettivo
esercitato dallo Stato sull'individuo (detenuto, imprigionato, o comunque privato
della sua libertà) al momento della scomparsa. Non è, per contro, configurabile
alcuna violazione dell'articolo 5 nella parte in cui tale disposizione vieta
l'illecita privazione della libertà e sicurezza personale, poiché non sono state
fornite prove sufficienti a dimostrare che i nove scomparsi siano stati effettivamente
catturati e detenuti dai militari turchi. L'obbligo d'indagine derivante
dall'articolo 5 si differenzia da quello previsto dall'articolo 2, che si fonda sulla
situazione di minaccia e pericolo di vita di particolare intensità (definita dalla
Corte di life threatening) in cui gli individui, soggetti alla giurisdizione e al controllo
di un determinato Stato, versano al momento della scomparsa (Cipro c.
Turchia, cit.; Akkum e altri c. Turchia, ricorso n. 21894/93, sentenza del
24/03/2005; Akdeniz e altri c. Turchia, ricorso n. 23954/94, sentenza del 31
maggio 2001; Kaya c. Turchia, ricorso n. 22729/93, sentenza del 19 febbraio
1998; Timurtas c. Turchia, ricorso n. 23531/94, sentenza del 13 giugno 2000). I
presupposti dei due obblighi potrebbero non coincidere, e dunque sovrapporsi,
integrando contemporaneamente la violazione sia dell'arti-colo 5 che
dell'articolo 2, come nel caso all'esame.
Accertato che i familiari dei ricorrenti sparirono in un contesto altamente rischioso
per la loro vita, e riconosciuto il mancato svolgimento di effettive investigazioni
da parte delle autorità competenti, la Corte ha infatti dichiarato la violazione,
da parte della Turchia, anche dell'articolo 2. Giova rilevare che la Corte ha,
sul punto, mutato orientamento, con evidenti fini di 'anticipazione' della tutela.
Secondo la precedente giurisprudenza l'obbligo di indagare sorgeva solo a fronte
dell'accertata violazione dell'articolo 2, ovvero dell'accertata lesione del diritto alla
vita in conseguenza dell'uso illegittimo della forza da parte di agenti statali, non
essendo sufficiente una situazione di pericolo, per quanto grave e concreta (Ergi
c. Turchia, ricorso n. 23818/94, sentenza del 28 luglio 1998).
Ma l'aspetto di maggior rilievo della controversia riguarda senz'altro l'eccezione
con cui, nel caso in esame, la Turchia ha dedotto la carenza di giurisdizione
ratione temporis dei giudici di Strasburgo.
Com'è noto, il Governo turco ha riconosciuto la giurisdizione della Corte
europea il 22 gennaio 1990, con clausola di irretroattività. La suddetta eccezione
si fonda sulla presunzione (peraltro conforme al prevalente orientamento
della Corte, secondo cui, dopo diversi anni dalla scomparsa senza notizie, deve
presumersi la morte dell'individuo anziché la vita, in Ble i c. Croazia, ricorso n.
59532/00, sentenza del 29 luglio 2004; Ipek c. Turchia, ricorso n. 25760/94, sentenza
del 10 febbraio 2004; Çiçek c. Turchia, ricorso n. 25704/94, sentenza del
27 febbraio 2001) che i familiari dei ricorrenti fossero morti pressappoco
all'epoca della scomparsa, e cioè attorno al 1974, nonchè sul presupposto che la
loro morte sia da considerarsi un fatto consumatosi istantaneamente, dunque
ben 15 anni prima del riconoscimento della giurisdizione.
La Corte ha respinto tale obiezione.
Pur riconoscendo l'irretroattività della propria giurisdizione, essa ha richiamato
quanto statuito nel caso Cipro c. Turchia (cit., par. 111): la maggior parte
delle persone scomparse era detenuta dalle forze turche e turco-cipriote; la
scomparsa avvenne durante le operazioni militari del 1974, in una situazione di
'life threatening', caratterizzata da uccisioni e imprigionamenti di massa, dunque
ad elevato rischio di vita. Il fallimento delle autorità turche nella conduzione
di un'effettiva indagine finalizzata ad accertare la sorte dei greco-ciprioti
scomparsi in tale contesto, costituisce violazione continua degli obblighi convenzionali.
Tale violazione, sebbene iniziata in epoca antecedente
all'accettazione turca della giurisdizione della Corte, permane e si protrae anche
nel periodo successivo a detto riconoscimento, rendendo la Corte competente
a giudicare.
Per spiegare la 'continuità' di tale violazione, la Corte fa riferimento alla circostanza
che gli obblighi correlati siano obblighi di durata: gli articoli 2 (diritto
alla vita), 3 (divieto di tortura e di trattamenti inumani e degradanti) e 5 (diritto
alla libertà e alla sicurezza della persona), non impongono agli Stati membri soltanto
l'obbligo negativo di astenersi dai comportamenti prescritti, ma, secondo
una giurisprudenza ormai del tutto consolidata (McCann e altri c. Regno Unito,
ricorso n. 18984/95, sentenza del 27 settembre 1995), anche precisi obblighi positivi,
che consistono nell'istituire un sistema in grado di offrire adeguata protezione
alla vita, alla sicurezza e alla libertà dell'individuo, e di garantire adeguate indagini
a fronte di presunte violazioni (A. Mowbray, The Development of Positive Obligations
under the European Convention on Human Rights by the european Court of
human rights, Oxford, 2004, pp. 7, 27, 40, 59, 61; G. Guillame, "Article 2", in L.
E. Pettiti, E. Decaux, P. H. Imbert, La Convention, cit., p. 149).
Non è chiaro, nel caso Varnava e altri c. Turchia, se la Corte ritenga violati in
modo continuo soltanto gli obblighi positivi (tra cui quello di investigare) derivanti
dagli articoli 1, 2, 3 e 5 della CEDU, oppure se ritenga la Turchia responsabile
anche della sorte degli scomparsi, presunti vivi e tuttora in stato di detenzione. Si
configurerebbe in tale ipotesi una violazione - anch'essa continua - degli obblighi
negativi derivanti dagli articoli 2, 3 e 5. Per quanto le circostanze inducano a ritenere
che la responsabilità della Turchia per i fatti avvenuti nel luglio 1974 vada
ben oltre la sola carenza di indagini, si deve preferire la prima interpretazione,
posto che l'effettiva detenzione o uccisione di individui greco-ciprioti da parte di
soldati turchi non è ancora stata provata 'oltre ogni ragionevole dubbio'. Inoltre,
qualora la Corte avesse ritenuto la Turchia responsabile della scomparsa e detenzione
di centinaia di greco-ciprioti, non si sarebbe limitata a dichiarare la violazione
dell'articolo 2 soltanto per 'lack of investigation', come invece è stato.
Strettamente connessa alla questione dell'irretroattività della giurisdizione
della Corte, è la pretesa irricevibilità dei ricorsi per decorrenza del termine
previsto dall'articolo 35 CEDU oggetto della seconda eccezione presentata dal
Governo turco. Quest'ultimo ha eccepito che i ricorsi fossero stati proposti ben
oltre il termine di sei mesi dalla decisione interna definitiva, richiamando la
sentenza del 22 ottobre 2002 Karabardak c. Cipro, ricorso n. 76575/01, in cui la
Corte aveva respinto il ricorso perché introdotto oltre i termini consentiti.
La Corte ha respinto anche questa obiezione, asserendo che i ricorsi erano
stati presentati alla Commissione appena tre giorni dopo il riconoscimento della
giurisdizione della Corte da parte della Turchia, e circa tre anni dopo il riconoscimento
del diritto a presentare ricorsi individuali alla Commissione. Non era
pertanto riscontrabile alcun significativo ritardo, né doveva ritenersi violato il
principio di certezza del diritto (alla cui tutela si ispira l'articolo 35), criterio elastico
da interpretarsi in senso sostanziale, specialmente in situazioni prive di
precisi riferimenti temporali, quali la scomparsa. La Corte ha poi precisato che
il caso Karabardak non è paragonabile al caso Varnava poiché nel primo il ricorso
era stato presentato con un ritardo ingiustificato di oltre trent'anni.
La motivazione con cui la Corte ha respinto la seconda eccezione turca lascia
spazio ad alcune considerazioni. Non può negarsi la tempestività con cui i
ricorsi sono giunti all'esame della Corte (appena tre giorni dopo il riconoscimento
della sua giurisdizione), ma lascia perplessi il fatto che i medesimi siano
stati presentati alla Commissione ben tre anni dopo il riconoscimento del diritto
al ricorso individuale, e quindici anni dopo i fatti e gli innumerevoli e fallimentari
tentativi di ottenere tutela dalle autorità locali: non potrebbe quest'ultimo
essere considerato un ingiustificato ritardo? A ben vedere, l'eccezione si poteva
egualmente respingere, facendo leva sulla natura continua delle violazioni perpetrate
dalla Turchia e, più esattamente, sul fatto che per una violazione prodotta
da un comportamento protrattosi nel tempo (in assenza di efficaci rimedi
interni) il termine semestrale decorre solo dalla fine di detto comportamento
(Loizidou c. Turchia, ricorso n. 15318/89, sentenza del 18 dicembre 1996). Nel
caso in esame, la violazione è tuttora in atto, posto che la Turchia non ha svolto
le dovute indagini neanche dopo la proposizione dei ricorsi; il termine semestrale
non è dunque ancora decorso.
In conclusione, la sentenza Varnava e altri c. Turchia conferma e consolida i
criteri interpretativi degli articoli 2, 3 e 5, anche in relazione agli obblighi positivi
da questi derivanti, e amplia il ricorso alla nozione di violazione a carattere continuo
- già utilizzata nella decisione relativa al quarto ricorso interstatale Cipro c.
Turchia - con la conseguenza di estendere la propria giurisdizione anche in merito
a fatti verificatisi prima della sua accettazione da parte della Turchia.
Il punto interessante è che la Corte, al fine di qualificare come continui gli
obblighi derivanti dagli articoli 2, 3 e 5 - e le correlate violazioni - presume la
sopravvivenza degli scomparsi nel luglio 1974 (modificando il precedente orientamento
espresso in Ble i c. Croazia, ricorso n. 59532/00, sentenza del 29 luglio
2004). Il carattere continuo, e dunque il perdurare di obblighi e violazioni, consente
alla Corte di stabilire la propria giurisdizione e superare le limitazioni
temporali sopravvissute alla ristrutturazione del sistema di garanzia operata dal
Protocollo n. 11. Quest'ultimo, infatti, pur eliminando il carattere facoltativo ed
unilaterale dell'accettazione della giurisdizione della Corte e la possibilità per
gli Stati di introdurre limitazioni temporali a tale giurisdizione, non è intervenuto
sulle limitazioni ratione temporis contemplate nel quadro originario del sistema
di garanzia (articolo 6).
La sentenza in esame potrebbe dunque segnare l'inizio di un nuovo orientamento
della Corte, volto a privare di effetti concreti tali residue limitazioni.
Arianna Bretschneider